Le zone dove il conflitto è ancora attivo.
Iblid – Città dell’area nord-occidentale, vicino al confine con la Turchia e capoluogo dell’omonimo Governatorato, dove – dopo i complessi accordi di “pace” – sono stati portati tutti i cosiddetti “ribelli” che avevano tentato di rovegliare il regime di Bashar al-Assad. Sono più di un milione di persone, molti dei quali ancora armati di sole armi leggere, proprio perché nell’accordo è stato loro consentito di tenerle. Su di loro, al momento, grava la seria minaccia dell’esercito siriano che si prepara all’attacco finale contro “la tana qaedista”, col supporto dei militari russi e iraniani, pronti alla resa dei conti i jihadisti. In questo scenario, ancora una volta, va ricordato il ruolo di circa due milioni di civili che vivono nella provincia e che hanno ottime probabilità di diventare profughi in fuga, tra non molto tempo.
Afrin – Qui succede qualcosa che va un po’ al di là della guerra siriana. Qui molte famiglie provengono dalla Ghouta orientale (sottoposta a bombardamenti devastanti) e da Dumayr, a Nord della capitale siriana. L’eservito turco continua ad avere l’obiettivo: quello di creare una zona cuscinetto fra la Siria e la Turchia, per spazzare ogni presenza del PKK, che Erdogan chiama “terroristi”. Chi è sopravvissuto agli scontri armati è uscito dal territorio di Afrin e da tutte le province curde. La ragione di tutto questo è semplice: i curdi devono tenersi alla larga dalla frontiera turca e sostituiti con una popolazione civile composta da amici della Turchia.
Si è appreso da testimonianze provenienti da Knayeh, un centro poco distante da Idlib, ultimo insediamento di jihadisti filo-qaedisti del fronte Hayat Tahrir al-Sham (al-Nusra), di cristiani sostenuti da due frati della Custodia di Terra Santa, rimasti al loro fianco, ancorché seriamente minacciati e caciati dalle loro case.
“Il destino di essere un killer o una vittima”. E’ stato il destino di molte persone durante la lunga guerra siriana. Ed è la condizione di chi non è mai riuscito, o non ha voluto lasciare la Siria, specialmente le persone che vivono nelle zone (ad Ovest dell’Eufrate) dove ancora è alta la tensione, soprattutto dopo il ritiro delle truppe Usa, annunciate da Trump nel dicembre scorso. Intanto, solo in Libano si contano ancora oltre 1.5 milioni di rifugiati siriani, su una popolazione di sei milioni di persone. Avvertono il disagio e la rabbia di sembrare invisibili agli occhi del resto del mondo, oltre che di essere a pochi chilometri da casa loro e sapere che tornare sarebbe come rischiare di morire. In molti è già addirittura maturata anche la consapevolezza di non tornare mai più. Una convinzione, questa dei rifugiati siriani, in gran parte giustificata dall’esperienza vissuta da chi prima di loro approdò in Libano nel 1948: i palestinesi fuggiti durante il conflitto arabo-israeliano che vide lo scontro fra l’appena nato Stato di Israele, da una lato, e le popolazioni palestinesi assieme agli altri Stati arabi circostanti, dall’altro. A settant’anni da quella guerra, stando ai dati dell’Unrwa, 450mila palestinesi vivono ancora nei 12 campi profughi del Libano.
Il bisogno di pace della popolazione. Sulla scia di un’eperienza geograficamente lontanissima – quella della Comunità di pace di San José de Apartadó, in Colombia – gruppi di siriani pensano alla pace e cercano adesioni ad un progetto che coinvolga persone protese verso la neutralità rispetto alle forze in conflitto, in luoghi dove non possano entrare formazioni armate e vengno comunque grantite l’assistenza sanitaria e la scuola per i bambini e i ragazzi. Un ruolo importante lo sta svolgendo Sheik Abdo, da anni impegnato nei campi dei profughi in Libano e che in Europa tenta – c’è da immaginare, purtroppo, inutilmente – di indurre la politica del Continente a non dare ascolto soltanto a chi in Siria usa le armi.
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